Dopo la morte di George Floyd, lo scorso 24 agosto nel Wisconsin un altro afroamericano è stato colpito sette volte dalla polizia riportando gravi ferite ma riuscendo a sopravvivere. Dopo le scene agghiaccianti di George Floyd che chiedeva di respirare, non si è ancora capito quale sia stata la “colpa” di John Blake. Gli Stati Uniti già piegati dal Covid-19 e dalla susseguente crisi economica derivata dal virus in collaborazione con l’amministrazione Trump, sono nuovamente a ferro e fuoco. Il mondo dello sport non è rimasto indifferente nemmeno questa volta e i giocatori della NBA nel momento più importante della sua stagione, i play off delle finals, hanno deciso di non scendere in campo in segno di protesta. Nei pavimenti di parquet dei palazzetti compare la scritta Black Lives Matter a caratteri cubitali. Eppure per rivedere una protesta del genere bisogna fare un bel salto indietro nel tempo e bisogna andare negli anni Sessanta. Il clima dell’America del tempo non era, purtroppo, molto diverso da quell'America che vediamo ora e per certi versi era anche molto peggio. Era sempre la solita e squallida storia, una storia intrisa di razzismo e prepotenze.
Se l’Italia avesse uno scrittore come Anthony Cartwright, Pontedera potrebbe essere oggi l’Iron Town protagonista del suo romanzo (Iron Towns. Città di Ferro, 66th and 2nd, 2017). Un luogo sospeso e per certi versi in cerca di identità, segnato dalle crisi industriali e dalle delocalizzazioni, ma forte di un glorioso e rude passato operaio. Un avamposto fieramente working class in cui il metronomo della vita è stato scandito per un’era geologica dalle sirene delle fabbriche, dai turni di lavoro e dai “colletti blu”. Una città distrutta dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale capace però di rialzarsi e di ricostruirsi, diventando una delle protagoniste del cosiddetto “boom economico” degli anni Sessanta. Figlia prediletta di Pontedera e delle sue catene di montaggio è infatti la Vespa Piaggio, uno dei simboli di quel boom sopra evocato ed emblema della vita moderna nell’Italia del dopoguerra, nonché autentico “prodotto tipico” del territorio in provincia di Pisa, incastonato fra l’Arno e l’Era.
Quando nel lontano 1976 nei cinema di tutto il mondo fece la sua comparsa il primo film della saga di Rocky, sceneggiato da Stallone e diretto da Avildsen, sembrava la classica storia stereotipata di uno che proveniva dai bassifondi e riusciva a trovare la sua notorietà nel mondo sportivo americano. In realtà dietro a questo film ci fu una costruzione molto accurata che si ispirava alla vita di un pugile realmente vissuto e che ebbe anche la lui la sua opportunità nella vita: Chuck Wepner. Wepner fu un pugile modesto con uno score normalissimo, che non aveva mai avuto il guizzo per il salto di qualità verso il titolo mondiale. Don King, allora giovanissimo manager e promoter di eventi pugilistici con alle spalle l’organizzazione del The Rumble In The Jungle notò questo coriaceo pugile pensando che fosse l’avversario giusto da mandare contro Muhammad Alì.
Sorriso smagliante, sguardo sveglio e sempre vestito glamour: in poche parole Sugar Ray Robinson. Sugar Ray è stato, dopo Marvin Hagler, uno dei più grandi della categoria dei pesi medi, così grande da ispirare tecnicamente anche lo stesso Muhammad Alì. Prima di approdare in pianta stabile nella categoria di peso che lo consacrerà, Robinson aveva creato scompiglio in quattro categorie diverse: pesi piuma, leggeri e welter prima, e alla fine nei mediomassimi. La sua superiorità fu evidente: fu imbattibile come peso welter, vinse cinque volte il titolo mondiale dei pesi medi e per poco non conquistò anche quello dei mediomassimi. Proprio nella categoria dei pesi medi divenne il re assoluto e pugile simbolo, dove affrontò i migliori della categoria come Carmen Basilio, Jake LaMotta, Gene Fullmer, Carl 'Bobo' Olson, Henry Armstrong, Rocky Graziano e Kid Gavilán.