Il calcio è, forse anche più degli altri sport, innanzitutto una passione intensa e immotivata da parte dei tifosi. Non c’è un motivo preciso, il più delle volte, per cui da bambino ti appassioni a dei colori e non li lasci più. Che sia il club più blasonato al mondo o una “provinciale” che si barcamena ogni anno fra retrocessioni, fallimenti e risalite, quel che da bambino vedi solamente come un gioco, un sogno magari da raggiungere se inizi a praticare come sport il calcio, col passare degli anni ti rendi conto che diventa la croce e la delizia della tua vita. Cambierà il tuo umore la domenica (o durante la settimana) a seconda del risultato, agiterà i tuoi sogni nei giorni precedenti a un match importante. In poche parole ti cambierà la vita.
Ad ogni scandalo, ogni volta che viene promulgato un decreto sempre più repressivo, ogni volta che guardi il tuo conto in banca e ti viene in mente la differenza che c’è con quello del più scarso della squadra per la quale ogni settimana ti fai il sangue amaro, ti ripeti che quella passione è immeritata, che quel mondo ormai è uno schifo, che non gli permetterai più di condizionarti la vita. Ma menti sapendo di mentire e la ruota continua, la croce e la delizia non ti abbandoneranno mai.
La mia è essere romano e romanista.
E la settimana appena passata che si è aperta con il derby contro la Lazio e si chiuderà con la partita casalinga contro l’Empoli è il perfetto emblema di una settimana da romanista. Del derby, però, vi risparmio qualsiasi cronaca, ve lo dico già.
Le partite non è necessario giocarle bene per vincerle. Non è necessario, nel calcio, surclassare l’avversario, dimostrare di essere migliore nei 90 minuti, per portare a casa il risultato. Non è necessariamente uno sport meritocratico. Faccio questa premessa per farvi capire qual è il ragionamento che mi porta a palare di Porto – Roma come la “più romanista delle sconfitte”.
Tutto comincia sotto una cappa scura, la scure del licenziamento del tecnico Di Francesco è lì che aleggia sulle teste di tutti. Il Do Dragao di Oporto, poi, è un impianto meraviglioso: moderno, sì, ma caldo ed infuocato. Stracolmo per ogni ordine di posto, una delle poche volte in Europa in cui i tifosi romanisti si sentono poco e non per il loro poco impegno nel sostenere la squadra ma per il calore della tifoseria locale.
Pronti via siamo già uno a zero per loro. Sembra tutto già scritto, loro attaccano e dominano, noi barricati dietro nel disperato tentativo di salvare il salvabile.
Poi arriva il primo degli esempi di cosa vuol dire essere romanista, accade tutto in cinque minuti: Perotti (un altro che in campo dal primo minuto non si vedeva da quando l’uomo ha inventato la ruota) si fa tirare giù in area. Rigore, inaspettatamente torniamo in gioco. Tutti pensano sarà lui a batterlo, rigorista quasi infallibile. E invece va Daniele De Rossi, uno che il romanismo con tutti i suoi pro e i suoi contro ce l’ha tatuato addosso. Gol, il capitano si prende sulle spalle la Roma, carica il suo pubblico, si trascina una città intera. Come fu un anno prima, in quella fantastica serata contro il Barcellona. Poi, due minuti dopo, esce per infortunio. Nel più classico stile romanista si passa dal paradiso all’inferno nell’arco di centoventi secondi. Entra Lorenzo Pellegrini, altro romano e romanista, altro designato a seguire le orme di chi lo ha preceduto in questo bellissimo, ma tormentato, compito che la storia gli impone. Anche lui farà la stessa fine al termine dei novanta minuti regolamentari: fuori per infortunio.
Novanta minuti che ci vedono alle corde ma, incredibilmente, ancora vivi.
“Fate fare a questo vecchietto almeno un'altra partita in Champions” è l’appello malinconico del capitano ai suoi compagni. Lui che sa che questa potrebbe essere stata l’ultima, per motivi anagrafici, di classifica, per gli infortuni che lo tormentano. Ma sa che ci sono trenta minuti ancora, più eventualmente i rigori.
E qui usciamo dalla cronaca ed entriamo nel mondo della filosofia, nell’apoteosi del romanismo. Incredibilmente risorgiamo, più per demeriti altrui che per meriti nostri.
Immaginiamo come sarebbe andata se quel pallonetto non si fosse fermato sulla riga. Lo sliding doors della stagione, alla fine, è lì. In quei pochi metri che separano il piede di Dzeko dalla porta, in quella palla lenta che viene fermata sulla linea. Il resto è conseguenza di un destino che troppo spesso è amaro. Var viste e non viste non meritano di essere infilate in questo racconto.
Quel “vecchietto” ne avrebbe giocate almeno altre due di partite in Champions. Sarebbe stato, inevitabilmente, tutto diverso. Anche e soprattutto la storia dopo.
E invece in quel pallone c’è tutto il romanismo. C’è che se una volta ti deve girare bene ti gira male. Che tu non sei fatto per la vittoria immeritata. Che quella nube da Trigoria non se ne andrà, probabilmente perché paghiamo ancora l’errore storico della crocifissione di Cristo. Che in questi bivi scegli sempre la strada sbagliata, quella che ti porta a ricominciare da capo per poi ritrovarti nuovamente, un giorno, a quel bivio.
Ma c’è anche della delizia in questa storia romanista.
C’è un signore, non solo anagraficamente parlando, di San Saba che mentre tutti riattaccavano la cornetta quando venivano interpellati per sostituire l’esonerato Di Francesco, rispondeva presente. Un altro che una sliding door simile l’aveva vissuta quasi dieci anni prima in un’altra storia romanista.
Perché alla fine anche se ha girato il mondo e compiuto l’impresa sportiva più incredibile dei tempi recenti, quella maglia, come il “vecchietto” di prima, ce l’ha tatuata sul cuore. Dodici partite, non importa come andranno, solo per dire: Roma mia se hai bisogno ci sono.
Perché alla fine, il nostro, è un dovere. Una causa messianica della quale nessuno ci renderà mai il valore storico. Ce la siamo scelta e ci va bene così.
Nicola Cuillo